Che frustrazione guardo mi accorgo di parlare
a qualche amico dell’unicità del ciclismo come fenomeno che va al di là dello
sport e avverto nell’interlocutore chiari segni di distanza e scetticismo.
Che piacere, per contro, imbattersi in un libro che
affronta invece la storia del Giro d’Italia, ma potremmo dire del ciclismo
italiano, senza dimenticare di
contestualizzarla nell'evoluzione del Paese, del suo costume, della sua
società.

Si attraversa il ventennio fascista mentre nascono
i miti di Bartali e Coppi.
L’Italia sa arrangiarsi e ricostruirsi. Dopo
lo stop imposto dalla Seconda Guerra Mondiale, già nel 1946 il Giro riprende
(con un anno di anticipo rispetto al Tour) e viene reinventato. Merito di
Vincenzo Torriani che nel ’48 riceve il testimone dal patron Cougnet.
La figura di Torriani è in effetti centrale
nel lavoro di Franzinelli per descrivere la grande epopea del Giro d’Italia dal dopoguerra fino agli anni
Novanta. Un esempio, quello dell'organizzatore, di intelligenza e creatività funzionale a uno scopo: fare
della Corsa Rosa non solo un evento sportivo di primaria grandezza ma
un’occasione di crescita economica per le imprese e di promozione per i vari
territori attraversati. La verve visionaria di Torriani rende il Giro sempre innovativo
nelle scelte del percorso e contribuisce a costruire l’aura mitica di molti
corridori, costretti a confrontarsi in tappe per le quali si spende con
facilità l’aggettivo “epiche”.
Si sussegnono protagonisti, dominatori, fasi
di interregno.
Cambiano gli sponsor sulle maglie delle
squadre, prima di squisito ambito ciclistico e, da Magni in poi, aperte ad ogni
settore dell’industria. Tra maggio e giugno ogni anno l’Italia scandisce i suoi
attimi con la Corsa Rosa, sui percorsi di gara come nelle piazze che accolgono
i primi stand pubblicitari e gli eventi collaterali. Si muove il mondo dello
spettacolo con esperienze come il Cantagiro.
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