Lance Armstrong ha riscritto alcune regole del gioco di questo sport. Se prima il corridore completo, stile Merckx per intenderci, era un uomo per tutte le stagioni nel senso che vinceva a Sanremo, indossava la maglia rosa, trionfava sui Campi Elisi e brindava a settembre con l'iride sul torace, dall'inizio del XXI secolo le cose non stanno più così.
E' come se il robocop texano un giorno avesse guardato sull'enciclopedia qual'è la corsa ciclistica più famosa trovandoci scritto "Tour de France" e risolvendo una volta per tutte il suo personale quesito sportivo. Per diventare il più ricco e famoso era allora sufficiente vincere quella roba lì per un congruo numero di volte. Diciamo cinque, anzi no, a cinque qualcuno è già riuscito. Sei? Mah, facciamo sette, e non se na parli più.
Detta così la cosa può essere offensiva verso un atleta che ha comunque dimostrato un carattere e un talento fuori dal normale. Eppure, se togliamo gli americani appassionatisi al ciclismo grazie ad loro fenomenale compatriota e pochi altri sprovveduti amanti del ciclismo ma tuttora ignari della storia che sta alle spalle di questo sport, nessuno annovera Armstrong tra i veri miti di sempre.

Il periodo storico in cui la sua epopea si è compiuta non l'ha certo favorito. Sono stati gli anni del doping pressoché non arginabile e del sospetto come peccato originale.
Già, il sospetto. Quello che Lance Armstrong non è riuscito a scrollarsi di dosso al pari di una vespa pronta a guastarti il pic-nic.
Azzardare giudizi sportivi definitivi è ancora prematuro. Personalmente preferisco continuare a ricordarlo per l'impresa a cui si riferisce la foto che qui accanto. Quel giorno del 1993 io a Oslo c'ero e tutta la pioggia possibile sull'Holmenkollen l'ho presa nella speranza di festeggiare la tripletta iridata di Gianni Bugno. Il mio eroe non si vide manco per uno scatto ma quel ventiduenne proveniente dal Texas, tutto solo all'arrivo, ci lasciò la netta impressione di non essere lì per caso.
So good bye, Lance, and good luck.
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